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Credo che ci sia una parte nel nostro cervello dedicata alle scene che non dimenticheremo mai.
Come cartoline indelebili vengono raccolte in un angolino nascosto, tutte ammucchiate.
Sono quelle scene che abbiamo fatto nostre e che, anche quando crediamo di aver perso, abbiamo la possibilità di andarle a ripescare, spolverarle e riviverle ancora una volta.
Un abbraccio prima di salire su un treno, il sorriso scambiato in metro con uno sconosciuto, la scena di Notting Hill quando parte “When you say nothing at all”, una risata infinita, l’acqua limpida di una vacanza.
Sono passati solo pochi giorni, eppure sono sicura che ci sono due scene che non dimenticherò mai. Due scene che fanno già parte di quel mucchietto di immagini ammassato in un angolino del mio cervello.
Giovedì mattina.
La “Destiny Accademy” sembra voler rispettare il nome che ha scelto per definirsi. I banchi sono colorati e sulle pareti sono appese frasi come “L’educazione è il primo passo contro la povertà”. L’ufficio della direttrice è arredato con uno scaffale pieno di libri per bambini e alcuni giocattoli, una scrivania, alcune sedie e foto dei propri studenti. Sono cinquecento in tutto e a sessanta di loro è permesso frequentare la scuola senza pagare. Le loro famiglie sono così povere da non potersi permettere nemmeno la bassissima rata che viene richiesta. Ma grazie alle tasse di chi paga e ad alcuni sponsor, ogni anno, la scuola può donare “il primo passo contro la povertà” a un numero esiguo di bambini.
Prima di andare via scambio alcune boccacce con visino tondo dalle orecchie piccole e sporgenti di non più di cinque anni. Non vuole dirmi il suo nome, anzi scappa e si nasconde dietro una porta. Poi corre verso il cancello e urla qualcosa. Lo rimprovera suo fratello, con una voce grossa e seria. Avrà solo due anni più di lui eppure ci tiene a fare la figura del fratello maggiore. Dopo poco arriva anche la madre che appena vede la direttrice le si avvicina per parlarle. Ha una voce mozzata e supplichevole. Il piccolo guarda la scena senza capire, il grande capisce e resta immobile in un angolo. Una ragazza ci traduce cosa sta accadendo: la donna sta pregando la direttrice di prendere i suoi figli nella sua scuola. Ma la Destiny Accademy ha raggiunto il suo numero massimo. La lista d’attesa è lunghissima, ma nessun altro può più entrare. Per ora sono solo sessanta coloro a cui può essere fatto il dono di un’educazione gratuita. La donna inizia a piangere accasciandosi su di un gradino, il piccolo le si siede accanto, il grande è sempre più impietrito. La direttrice le carezza la spalla, non può davvero fare nulla. La piccola famiglia va via rassegnata.
Le lacrime di quella donna, lo sguardo del figlio maggiore, il broncio di quello più piccolo, mi hanno accompagnato per molte delle ore seguenti facendo crescere in me un senso di impotenza. Per ore ho continuato a chiedermi come sia possibile che la scelta di una madre debba essere tra mandare i figli per strada a fare l’elemosina o farli morire di fame. Per ore ho provato ad immaginarmi, senza riuscirci, cosa prova una madre a sapere che i propri figli non avranno mai un futuro.
Il taxi che ci sta portando verso l’ambasciata americana, dove siamo stati invitati per un party, è pieno di gente. Non vedo l’ora di uscire, si soffoca e c’è un’aria fin troppo pesante. Finalmente ci siamo, il portellone si apre e scendiamo. Una boccata d’aria per riprendere fiato. L’aria però mi resta nella gola. Non arriva ai polmoni né torna fuori. Un paio di bambini di circa due anni gattonano e barcollano a piedi scalzi giocando sul marciapiede. Accanto a loro la madre sdraiata per terra con un velo di sopra, probabilmente la sua unica coperta. Attaccato al suo seno un altro neonato. La donna ha chiazze di sangue sparse sul corpo che traspaiono dal suo lenzuolo improvvisato. Forse non ha un braccio, ma non sono sicura di aver visto bene.
Il loro è un letto fatto di cemento e fango, la loro casa sono i loro stessi corpi.
E a due passi, l’America.
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