domenica 20 novembre 2011
Con una bacchetta in mano
Racconto scritto per il contest "On The Move" di Pubblicità Progresso
Era il mio ultimo giorno in Etiopia.
L’8 Settembre dell’estate che sta svanendo in questi giorni, nonostante sia Ottobre inoltrato. Avevo deciso di trascorrere il mio ultimo giorno senza fare nulla di speciale, vivendomelo come avevo vissuto tutti gli altri. Ero vicino Mexico, ad aspettare Hirut ed Elisa, di fronte al bar Lombardia dove avremmo preso un thè caldo alla cannella o un caffè acquoso di cui gli etiopi vanno così fieri. Mentre le aspettavo ricordo di essermi accesa una sigaretta, ero ormai abituata agli sguardi increduli di alcuni passanti alla vista di una ragazza che fuma per strada. Così come ormai ero abituata alle frasi a mezza bocca che qualcuno pronunciava passandomi accanto o ai numerosi venditori ambulanti che cercavano di appiopparmi qualcosa di inutile. Mi ero abituata anche ai mendicanti per strada e ai bambini che pulivano le scarpe ad ogni angolo.
Apri bene gli occhi e osserva più che puoi in questi giorni, perché dopo alcune settimane diventerà tutto normale - mi aveva detto Elena il giorno dopo il mio arrivo ad Addis Abeba. Ed era vero, quasi tutto era diventato normale e quotidiano. Anche se alcuni aspetti di quella città continuavano a stupirmi ogni giorno. La mia sigaretta era finita e nessuno ancora era arrivato, probabilmente erano entrambe su un taxi che faceva lo slalom nel traffico.
Fu in quel momento che sentii un fischiettio lontano provenire dalla parte destra del marciapiede. Mi girai e la vidi arrivare, dondolante nei suoi chili di troppo ricoperti da un pareo e altri stracci sporchi. La vedevo avanzare con passo incerto. Nella mano destra teneva un ramoscello verde che sventolava davanti a sé. A pochi passi da me c’era un albero, ci si appoggiò con la schiena e iniziò a fissarmi dalla testa ai piedi, ripetendo quel movimento almeno quattro volte, senza smettere di fischiettare. Continuava a fissarmi e io iniziavo a sentirmi in soggezione, voltavo lo sguardo nella direzione opposta sperando che se ne andasse. Si staccò dal tronco e mi venne ancora più vicina, girò due volte intorno a me roteandomi davanti il suo prezioso ramoscello, quasi come se fosse una bacchetta magica. Non sapevo cosa pensare, se era una maledizione o una benedizione quella che mi stava mandando o se semplicemente era la sua follia a condizionare il suo atteggiamento. Mi squadrò per l’ultima volta e tornò sui suoi passi. Perplessa la vidi mentre si allontanava. Dondolante nei suoi chili di troppo, lanciò per terra la sua bacchetta e ne strappò una nuova da una siepe accanto a lei. Il suo fischiettio lontano risuonò nell’aria per i secondi successivi, fino a quando fui distratta dai passi veloci e ritardatari di Elisa che arrivava dalla parte opposta.
Ho passato un mese e mezzo ad Addis Abeba e di ogni persona che incontravo cercavo di scoprire la storia che nascondeva. Ho conosciuto persone dai sogni più grandi del possibile, persone che fanno della speranza la loro più grande preghiera, persone che disegnano il futuro degli altri su un foglio bianco e altre ancora che iniziano a colorarlo con colori pastello. Ho conosciuto i direttori di una scuola “informale”, partner nel lavoro, nella vita e nei sogni. Lo scorso anno nella loro scuola hanno studiato cinquecento bambini, dai cinque anni in su, sessanta dei quali vedono quelle mura come un regalo della vita. Appartengono a delle famiglie che non possono permettersi di pagare la scuola pubblica, famiglie il cui investimento primario non può essere l’istruzione dei figli ma un pasto sicuro a fine giornata, spesso figli di donne senza un marito e troppi figli. La scuola, grazie a finanziamenti esteri e alle tasse che pagano gli altri iscritti, è riuscita a regalare loro la prima pietra per un futuro migliore, l’opportunità di alzarsi ogni mattina e andare a studiare. Ho conosciuto un uomo di più di cinquant’anni che ha deciso di fondare un istituto per disabili. Un ciclo più che un istituto qualunque. I bambini e i ragazzi più giovani studiano attraverso strumenti creati su misura dell’handicap che li accompagna. Un bambino cieco, ad esempio, può imparare l’alfabeto amarico e inglese sfiorando con le dita i singoli caratteri creati in bassorilievo con la sabbia su dei tasselli di compensato. Tutti i materiali e gli strumenti utilizzati per l’apprendimento sono prodotti dai ragazzi stessi alla fine del loro ciclo di studi. Alcuni hanno anche la possibilità di lavorare alla creazione di prodotti che poi verranno immessi nel mercato, come sandali o vestiti da donna. Altri ancora ricevono training di economia base, per poter gestire autonomamente la loro attività. Da studenti a impiegati a manager embrionali. Tutto nella stessa struttura, chiusi tra quattro mura di una città che altrimenti gli avrebbe dato come unica possibilità quella di chiedere quattro monete all’angolo della strada. Ho conosciuto donne la cui speranza più grande è di poter continuare a lavorare in pace e in armonia, ringraziando chi le ha aiutate per aver abbandonato il vecchio lavoro di “trasportatrici di legname”. Si svegliano presto al mattino e si siedono per ore di fronte a un telaio che darà alla vita delle sciarpe colorate e cariche di forza. Ho conosciuto giovani volontari che stanno portando queste sciarpe fuori dalla nazione, sciarpe che oggi vengono indossate da altre donne in ogni angolo del mondo. Giovani che hanno deciso di non volere più restare a guardare il mondo cambiare, ma di alzarsi e cambiarlo loro, come loro vogliono e se lo immaginano.
Ho passato un mese e mezzo ad Addis Abeba e il mondo di certo non l’ho cambiato, ma una cosa sono sicura di averla fatta bene : raccogliere storie e portarle qui, a persone che altrimenti queste storie non l’avrebbero mai ascoltate.
Forse è questo il potere che ho ricevuto quel giorno, vicino Mexico davanti al bar Lombardia, da quella donna dondolante nei suoi chili di troppo e con una bacchetta in mano.
giovedì 8 settembre 2011
Take me back to the start.
08:56 GMT +2
Scrivo mentre sono seduta per terra sullo stesso punto dello stesso aeroporto da cui ho scritto il mio primo post. Erano le 16:56 del 26 Luglio quando vedevo Istanbul come “un ponte che mi porta ancora più lontano”.
Ora è solo una lenta e rumorosa scala mobile che mi riporta al piano terra.
Non mi piace stare qui. E dopo quasi due ore inizio a non tollerare l’indifferenza della gente.
Qui nessuno ti parla, a nessuno interessa come ti chiami, da dove vieni, cosa ci fai qui e dove stai andando. All’aeroporto di Addis mi hanno sequestrato l’accendino, ogni mezz’ora vado fuori a fumare e lo chiedo a qualcuno: è l’unico contatto umano che posso trovare. Nemmeno i bambini mi ricambiano il sorriso. La gente evita addirittura gli sguardi. Che vi hanno fatto? Cos’è successo in questo mese e mezzo in queste stanze?
In queste ultime settimane io faticavo ad avere un momento di solitudine. Camminando da sola per strada, seduta sui sedili strappati dei taxi, aspettando qualcuno ad un angolo della strada o uscendo la mattina presto da casa non mi sono mai sentita ignorata. Tutti ti guardano, specialmente se il colore della tua pelle si distingue dal loro. E se ti guardano, quasi sempre, ti sorridono. Anche il fruttivendolo passando ogni mattina mi dava il buongiorno. Camminando per le strade affollate ho sentito milioni di voci che mi dicevano qualcosa, a volte in un inglese stentato, a volte così invadenti da essere fastidiose. E aspettare qualcuno da sola in un angolo della strada significava, quasi sempre, iniziare una conversazione con uno sconosciuto che ti iniziava a fare domande.
Mi manca già l’insistenza delle loro voci. Qui seduta al massimo posso avere l’insistenza del tempo che ha deciso di scorrere lento.
Ho appena bevuto un cazzo di caffè per quasi quattro euro. Quasi quattro euro. L’altro ieri la commessa di un negozio di souvenir me l’ha offerto solo perché la facevo ridere, solo perché sono un’europea che contratta come un’etiope. Caffè acquoso e per dipiù zuccherato, proprio come mi fa più schifo. Eppure era più buono di quello che ho appena bevuto: un quasi vero espresso servito con diffidenza in un bicchiere di carta. In effetti avrei potuto contrattare almeno per averlo nella tazzina di vetro.
L’unica cosa positiva in questo momento è la mia valigia. Non quella enorme e pesantissima, nemmeno il trolley qui per terra al mio fianco. La valigia che avevo aperto la mattina della mia partenza settimane fa, quella grande dentro di me.
Quel giorno era “volutamente vuota”. Oggi è meravigliosamente straripante.
E non sono souvenir quelli che ci sono dentro, ma pezzi di vita quotidiana che mi rimarranno dentro.
Perché alla fine è un po’ così che l’ho vissuta, come se fosse la mia vita quotidiana in tempo definito e troppo breve. E altro che souvenir, sono visi e voci, suoni, colori, puzze e profumi. Sono sapori adesso familiari e abbracci che già mancano. Sono immagini che fanno rabbrividire a altre che fanno ridere fino alle lacrime.
Sono i miei cinquantadue giorni in Africa, in Ethiopia, ad Addis Abeba.
Take me back to the start.
Perchè solo adesso che sto tornando ho un’immensa paura di non averla vissuta al massimo.
In fondo però lo so, l’ho vissuta come volevo.
domenica 4 settembre 2011
Le sciarpe del coraggio
1/09
18:32
Questo pomeriggio sono tornata da loro. Ho superato le bancarelle colorate di Shromeda, ho girato a sinistra quando ho visto il cartello verde “Former Women Fuel wood Carriers Association “e al cancello color verde acqua sono entrata. Sorridenti mi hanno salutata, alcune mi hanno stretto le mani tra le loro.
Sono andata a sedermi accanto a loro, sotto quella tettoia di metallo che usano come cucina, sala da pranzo e da lavoro. Il pranzo era quasi pronto e l’odore di carne impregnava l’aria intorno a noi. Mi hanno offerto un pezzo di pane rosato preparato da una di loro, era ancora tiepido. Somigliava a quello che a volte compro al panificio sotto al nostro palazzo, solo un po’ più dolce, buono come il pane fatto in casa. Si sono riunite tutte intorno ad un piano circolare su cui è stata poggiata una grande injera con sopra la carne. Almeno cinque volte mi hanno chiesto se ne volevo un po’ e nonostante ogni volta rispondessi che avevo già pranzato, hanno preparato un piattino per me e la mia compagna. Il loro fornello è un cumulo di legna che ogni volta accendono in pochi minuti, forse per questo il sapore era così buono. Hanno mangiato in pochi minuti e poi subito si sono rimesse a lavoro: una a sparecchiare, una a preparare il caffè e le altre sedute sulle loro scomode panche ad annodare le frange delle loro sciarpe.
Fino a circa un anno fa trasportavano legname sulle loro schiene che adesso sono curve, poi grazie ad alcuni aiuti si sono riunite in un’associazione che produce sciarpe, borse e spezie. In tutto sono alcune centinaia, circa una trentina quelle che tessono. Le più anziane si svegliano presto la mattina e lavorano per alcune ore mentre le più giovani e veloci stanno ancora dormendo. In media impiegano due ore per sciarpa, ma le producono otto alla volta e poi le tagliano. Una volta tagliate annodano i piccoli filamenti finali per concludere il loro lavoro. È questo quello che stanno facendo mentre sono seduta di fronte a loro a fare delle domande e a scoprire i loro pensieri. Gli abbiamo appena comunicato che AIESEC Ethiopia ha venduto duecento delle loro sciarpe durante il Congresso Internazionale in Kenya. I loro visi per un attimo si illuminano. I ringraziamenti sembrano non finire mai. Chiedo alla più anziana del gruppo qual è la sua speranza per il futuro: continuare a vivere in pace qui, lavorando. Sembra assurdo che questa frase l’abbia detta una donna che guadagna circa dieci euro al mese. È lo stipendio medio, anche per quelle che hanno dei figli. Bambini il cui futuro non ha colore, alla cui istruzione non è mai stata aperta la porta. Madri che lavorano ogni giorno duramente, le cui mani sono spesse e rovinate, i cui lineamenti sono forti come la vita che stanno vivendo. Donne che non si arrendono.
Ed è proprio la loro forza e il loro lavoro che aprirà quella porta. AIESEC Ethiopia ha iniziato a vendere le loro sciarpe e parte dei ricavi andrà a costituire un fondo per volontari internazionali che arriveranno durante tutto l’anno per dare ai loro figli un’istruzione di base. Chissà se si renderanno conto che è il loro sudore il merito di tutto questo.
Ho chiesto loro cosa vogliono che sentano le persone che adesso nel mondo iniziano ad indossare le loro sciarpe. Mi hanno risposto che sperano che queste persone pensino anche a loro e al loro duro lavoro.
Io la sto indossando e sento il calore del loro coraggio che mi scalda il collo.
lunedì 29 agosto 2011
Cammini proprio come un'europea
28/8
20:52
Pigiama, letto, la mia nuova insalata di avocado e Einaudi che in sottofondo mi suona Melodia africana.
Adesso capisco il suo alternare note lente e veloci, è un po’ come la vita qui: scorre lenta e veloce allo stesso tempo. Puoi stare un’ora ad aspettare al luogo dell’appuntamento fermo ed in silenzio, accanto ad altre persone che aspettano non si sa cosa. E poi devi lottare per salire sui taxi stracolmi all’ora di punta, gli stessi taxi che sfrecciano a zig zag per le strade e che ti fanno correre quando attraversi la strada.
La pioggia in questi ultimi giorni sta portando via tutto. Porterà via anche il colore dei miei vestiti che da tre giorni sono appesi fuori sperando di asciugarsi. Di solito pioveva una volta al giorno, adesso sembra che anche il tempo si sia stufato della stagione delle piogge e vuole scaricare tutta l’acqua in una sola settimana. No, illusione. Continuerà così almeno fino a metà Settembre. E quando inizia non ti da nemmeno il tempo di ripararti. L’altro ieri al sentire le prime gocce ho subito cercato riparo sotto dei portici, sono arrivata a destinazione già mezza bagnata. Il provvisorio riparo ospitava almeno altre cinquanta persone e altre ancora se ne aggiungevano, più bagnate di me. I venditori ambulanti l’hanno preso come il loro momento di pausa. La pioggia ha iniziato a diventare violenta e insistente. Dopo quasi dieci minuti le strade erano fiumi e l’acqua iniziava a salire sul nostro marciapiede. Lentamente, ma senza mai fermarsi , camminava verso di noi e noi piano piano ci spostavamo. Minuto dopo minuto, passo dopo passo, eravamo accalcati tutti nello stesso punto. L’acqua della pioggia dovrebbe avere il colore dell’acqua, al massimo quella che si poggia sull’asfalto si sporca. Qui è totalmente marrone-terra. Alcune donne hanno affacciato i loro piedi sulla strada e hanno iniziato a lavarli, lo stesso facevano altre persone nel marciapiede di fronte a noi. Un ragazzo si è alzato i pantaloni ed ha iniziato a sguazzare nel lago temporaneo che si era ormai formato accanto a noi sotto ai portici. Ha anche lavato alcuni oggetti che poi ha riposto nella sua bancarella portatile.
Non sembrava voler smettere, anzi alcuni tuoni avvertivano che non avrebbe smesso ancora per un po’. Io e Mule, il ragazzo che era con me quel pomeriggio e che come me è arrivato a casa zuppo, abbiamo deciso di muoverci. Eravamo in ritardo e non potevamo stare ancora per molto lì sotto ad aspettare. Abbiamo provato ad attraversare la strada, ma l’acqua ormai sfiorava il marciapiede. Allora abbiamo provato a cambiare strada e siamo arrivati alla fine del marciapiede. Una donna davanti a noi si è fatta coraggio e ha attraversato la strada, con i suoi sandali è entrata nel fiume che l’ha coperta fino ai polpacci. Cambiare strada di nuovo. Questa sembrava percorribile, ma appena abbiamo provato ad abbassare il piede eravamo fradici fino alle caviglie. L’unica soluzione è stata fermare una macchina, un grosso macchinone bianco con una donna dentro, per chiederle di farci attraversare la strada in macchina. Credo lavori per le Nazioni Unite, o almeno così mi ha suggerito l’adesivo sul parabrezza. Dentro la temperatura era almeno dieci gradi in più di quella che c’era fuori, ambiente asciutto e lei asciutta e a maniche corte. Scesi dalla sua confortevole macchina ho continuato a sguazzare nelle mie scarpe allagate per tutto il pomeriggio. Io l’ombrello non lo compro.
Quando sono in Italia e cammino in gruppo spesso mi sento lenta rispetto agli altri. Le mie gambe sono più corte e forse sono anche più fiacca degli altri. Qui, più di una volta, mi sono sentita dire “cammini proprio come un’europea!”. Troppo veloce. Ho imparato che se si cammina solo per il gusto di camminare, se stai facendo una passeggiata, la tua andatura deve essere lenta, devi camminare all’africana. Se invece hai qualcosa da fare, hai un appuntamento o sei in ritardo allora devi camminare all’europea.
sabato 27 agosto 2011
Il sogno dello shoes shiner
1 Birr – solo acqua (circa 4 centesimi di euro)
2 Birr – acqua e sapone (circa 8 centesimi di euro)
3 Birr – acqua, sapone e colore (circa 12 centesimi di euro)
Di notte camminando per le strade di Addis i marciapiedi sembrano cimiteri di massi. Massi grossi quanto un’anguria, fermi uno accanto all’altro.
Di giorno camminando per le stesse strade di Addis i marciapiedi diventano distese di schiene piegate e braccia in movimento.
Nella stagione delle piogge gli shoes shiner lavorano duro.
Hanno sette, otto, nove, sedici, venticinque, trent’anni. Raramente sono donne.
Età diverse ma lo stesso sguardo di chi possiede un’umiltà senza eguali.
La maggior parte di loro, ho appena scoperto, viene da alcuni villaggi a sud di Addis.
La loro cultura sembra una parodia del sogno americano: iniziare a lavorare come shoes shiner, guadagnare il più possibile, dare il meglio di sé durante la stagione delle piogge e racimolare negli anni un gruzzoletto tale da poter aprire un Suk bederete, una sorta di mini tabbaccaio che vende un po' di tutto.
Alcuni bambini invece lo fanno come “lavoretto estivo”: le scuole sono chiuse, la pioggia è costante, le scarpe costantemente infangate e portare alcune decine di Birr a casa a fine giornata non è certo di troppo.
Tra un paio di scarpe da pulire e l’altro si concedono di stare seduti sul loro sgabellino, solitamente trono dei loro clienti, richiamando l’attenzione dei passanti con cenni verso il basso a indicare il fango che loro in pochi minuti potrebbero portarti via. Se inizia a piovere spariscono oppure restano in attesa sotto ad un riparo temporaneo fatto di un telo di plastica e due bastoni. Appena il cielo decide di smettere il lavoro riprende frenetico. Alla gente credo non piaccia andare in giro con le scarpe infangate, preferisce sedersi e lasciare a qualcun altro il compito di pulirle.
E i loro visi tornano ad accostarsi al tanfo dei piedi di passanti sconosciuti.
Ieri un impertinente (come direbbe qualcuno) shoes shiner ha indicato le mie nike nere dicendo che erano davvero sporche.
Ha ragione, ma io proprio non ce la faccio.
venerdì 19 agosto 2011
Hoya Hoye
La porta è aperta.
Puoi sentire i loro passi veloci correre su per le scale, accompagnati da un tintinnio invitante.
Spuntano sulla soglia di casa e iniziano a cantare e battere le mani. Un ritmo costante e le loro voci che si alternano cantando lo stesso verso più e più volte. Circa due minuti di cantilena, senza sosta. E io davanti a loro affascinata che rido.
Anche la sera precedente, verso le sette, un altro gruppo di bambini aveva cantato per noi davanti alla porta e avevamo dato loro delle monete pensando semplicemente che si fossero improvvisati cantanti di strada per guadagnare qualcosa. Oggi invece ho scoperto che il 19 Settembre qui in Ethiopia si festeggia l’ Hoya hoye ( o Buhe, ma l’altro nome mi piace di più), nata come festa religiosa e oggi diventata un rito quasi del tutto pagana. I due giorni che precedono la festa è tradizione che gruppi di bambini vadano porta a porta a recitare questa canzoncina. Non chiedono soldi, mi hanno spiegato che loro attendono solo una ricompensa per la loro performance. Caramelle o monete per loro è lo stesso.
La canzone finisce e restano fermi in attesa. Chiedo loro cosa vogliono e ridono. Non ricordo i loro nomi e anche se li ricordassi non sarei capace né di scriverli né di pronunciarli. Sono cinque: due hanno otto anni, uno nove, uno dieci e uno tredici. Alcune monete è tutto quello che ho, due per uno e sorridenti mi salutano.
L’ultimo della fila, prima di scendere le scale, si gira e mi urla “ lela’ gize enigenagne”.
“Cosa vuol dire?” gli chiedo.
“Ci vediamo un altro giorno!” torna indietro mi da il cinque e se ne va.
Alcuni minuti più tardi ho sentito lo stesso ritornello provenire dal palazzo di fronte.