9/09
08:56 GMT +2
Scrivo mentre sono seduta per terra sullo stesso punto dello stesso aeroporto da cui ho scritto il mio primo post. Erano le 16:56 del 26 Luglio quando vedevo Istanbul come “un ponte che mi porta ancora più lontano”.
Ora è solo una lenta e rumorosa scala mobile che mi riporta al piano terra.
Non mi piace stare qui. E dopo quasi due ore inizio a non tollerare l’indifferenza della gente.
Qui nessuno ti parla, a nessuno interessa come ti chiami, da dove vieni, cosa ci fai qui e dove stai andando. All’aeroporto di Addis mi hanno sequestrato l’accendino, ogni mezz’ora vado fuori a fumare e lo chiedo a qualcuno: è l’unico contatto umano che posso trovare. Nemmeno i bambini mi ricambiano il sorriso. La gente evita addirittura gli sguardi. Che vi hanno fatto? Cos’è successo in questo mese e mezzo in queste stanze?
In queste ultime settimane io faticavo ad avere un momento di solitudine. Camminando da sola per strada, seduta sui sedili strappati dei taxi, aspettando qualcuno ad un angolo della strada o uscendo la mattina presto da casa non mi sono mai sentita ignorata. Tutti ti guardano, specialmente se il colore della tua pelle si distingue dal loro. E se ti guardano, quasi sempre, ti sorridono. Anche il fruttivendolo passando ogni mattina mi dava il buongiorno. Camminando per le strade affollate ho sentito milioni di voci che mi dicevano qualcosa, a volte in un inglese stentato, a volte così invadenti da essere fastidiose. E aspettare qualcuno da sola in un angolo della strada significava, quasi sempre, iniziare una conversazione con uno sconosciuto che ti iniziava a fare domande.
Mi manca già l’insistenza delle loro voci. Qui seduta al massimo posso avere l’insistenza del tempo che ha deciso di scorrere lento.
Ho appena bevuto un cazzo di caffè per quasi quattro euro. Quasi quattro euro. L’altro ieri la commessa di un negozio di souvenir me l’ha offerto solo perché la facevo ridere, solo perché sono un’europea che contratta come un’etiope. Caffè acquoso e per dipiù zuccherato, proprio come mi fa più schifo. Eppure era più buono di quello che ho appena bevuto: un quasi vero espresso servito con diffidenza in un bicchiere di carta. In effetti avrei potuto contrattare almeno per averlo nella tazzina di vetro.
L’unica cosa positiva in questo momento è la mia valigia. Non quella enorme e pesantissima, nemmeno il trolley qui per terra al mio fianco. La valigia che avevo aperto la mattina della mia partenza settimane fa, quella grande dentro di me.
Quel giorno era “volutamente vuota”. Oggi è meravigliosamente straripante.
E non sono souvenir quelli che ci sono dentro, ma pezzi di vita quotidiana che mi rimarranno dentro.
Perché alla fine è un po’ così che l’ho vissuta, come se fosse la mia vita quotidiana in tempo definito e troppo breve. E altro che souvenir, sono visi e voci, suoni, colori, puzze e profumi. Sono sapori adesso familiari e abbracci che già mancano. Sono immagini che fanno rabbrividire a altre che fanno ridere fino alle lacrime.
Sono i miei cinquantadue giorni in Africa, in Ethiopia, ad Addis Abeba.
Take me back to the start.
Perchè solo adesso che sto tornando ho un’immensa paura di non averla vissuta al massimo.
In fondo però lo so, l’ho vissuta come volevo.
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