giovedì 8 settembre 2011
Take me back to the start.
08:56 GMT +2
Scrivo mentre sono seduta per terra sullo stesso punto dello stesso aeroporto da cui ho scritto il mio primo post. Erano le 16:56 del 26 Luglio quando vedevo Istanbul come “un ponte che mi porta ancora più lontano”.
Ora è solo una lenta e rumorosa scala mobile che mi riporta al piano terra.
Non mi piace stare qui. E dopo quasi due ore inizio a non tollerare l’indifferenza della gente.
Qui nessuno ti parla, a nessuno interessa come ti chiami, da dove vieni, cosa ci fai qui e dove stai andando. All’aeroporto di Addis mi hanno sequestrato l’accendino, ogni mezz’ora vado fuori a fumare e lo chiedo a qualcuno: è l’unico contatto umano che posso trovare. Nemmeno i bambini mi ricambiano il sorriso. La gente evita addirittura gli sguardi. Che vi hanno fatto? Cos’è successo in questo mese e mezzo in queste stanze?
In queste ultime settimane io faticavo ad avere un momento di solitudine. Camminando da sola per strada, seduta sui sedili strappati dei taxi, aspettando qualcuno ad un angolo della strada o uscendo la mattina presto da casa non mi sono mai sentita ignorata. Tutti ti guardano, specialmente se il colore della tua pelle si distingue dal loro. E se ti guardano, quasi sempre, ti sorridono. Anche il fruttivendolo passando ogni mattina mi dava il buongiorno. Camminando per le strade affollate ho sentito milioni di voci che mi dicevano qualcosa, a volte in un inglese stentato, a volte così invadenti da essere fastidiose. E aspettare qualcuno da sola in un angolo della strada significava, quasi sempre, iniziare una conversazione con uno sconosciuto che ti iniziava a fare domande.
Mi manca già l’insistenza delle loro voci. Qui seduta al massimo posso avere l’insistenza del tempo che ha deciso di scorrere lento.
Ho appena bevuto un cazzo di caffè per quasi quattro euro. Quasi quattro euro. L’altro ieri la commessa di un negozio di souvenir me l’ha offerto solo perché la facevo ridere, solo perché sono un’europea che contratta come un’etiope. Caffè acquoso e per dipiù zuccherato, proprio come mi fa più schifo. Eppure era più buono di quello che ho appena bevuto: un quasi vero espresso servito con diffidenza in un bicchiere di carta. In effetti avrei potuto contrattare almeno per averlo nella tazzina di vetro.
L’unica cosa positiva in questo momento è la mia valigia. Non quella enorme e pesantissima, nemmeno il trolley qui per terra al mio fianco. La valigia che avevo aperto la mattina della mia partenza settimane fa, quella grande dentro di me.
Quel giorno era “volutamente vuota”. Oggi è meravigliosamente straripante.
E non sono souvenir quelli che ci sono dentro, ma pezzi di vita quotidiana che mi rimarranno dentro.
Perché alla fine è un po’ così che l’ho vissuta, come se fosse la mia vita quotidiana in tempo definito e troppo breve. E altro che souvenir, sono visi e voci, suoni, colori, puzze e profumi. Sono sapori adesso familiari e abbracci che già mancano. Sono immagini che fanno rabbrividire a altre che fanno ridere fino alle lacrime.
Sono i miei cinquantadue giorni in Africa, in Ethiopia, ad Addis Abeba.
Take me back to the start.
Perchè solo adesso che sto tornando ho un’immensa paura di non averla vissuta al massimo.
In fondo però lo so, l’ho vissuta come volevo.
domenica 4 settembre 2011
Le sciarpe del coraggio
1/09
18:32
Questo pomeriggio sono tornata da loro. Ho superato le bancarelle colorate di Shromeda, ho girato a sinistra quando ho visto il cartello verde “Former Women Fuel wood Carriers Association “e al cancello color verde acqua sono entrata. Sorridenti mi hanno salutata, alcune mi hanno stretto le mani tra le loro.
Sono andata a sedermi accanto a loro, sotto quella tettoia di metallo che usano come cucina, sala da pranzo e da lavoro. Il pranzo era quasi pronto e l’odore di carne impregnava l’aria intorno a noi. Mi hanno offerto un pezzo di pane rosato preparato da una di loro, era ancora tiepido. Somigliava a quello che a volte compro al panificio sotto al nostro palazzo, solo un po’ più dolce, buono come il pane fatto in casa. Si sono riunite tutte intorno ad un piano circolare su cui è stata poggiata una grande injera con sopra la carne. Almeno cinque volte mi hanno chiesto se ne volevo un po’ e nonostante ogni volta rispondessi che avevo già pranzato, hanno preparato un piattino per me e la mia compagna. Il loro fornello è un cumulo di legna che ogni volta accendono in pochi minuti, forse per questo il sapore era così buono. Hanno mangiato in pochi minuti e poi subito si sono rimesse a lavoro: una a sparecchiare, una a preparare il caffè e le altre sedute sulle loro scomode panche ad annodare le frange delle loro sciarpe.
Fino a circa un anno fa trasportavano legname sulle loro schiene che adesso sono curve, poi grazie ad alcuni aiuti si sono riunite in un’associazione che produce sciarpe, borse e spezie. In tutto sono alcune centinaia, circa una trentina quelle che tessono. Le più anziane si svegliano presto la mattina e lavorano per alcune ore mentre le più giovani e veloci stanno ancora dormendo. In media impiegano due ore per sciarpa, ma le producono otto alla volta e poi le tagliano. Una volta tagliate annodano i piccoli filamenti finali per concludere il loro lavoro. È questo quello che stanno facendo mentre sono seduta di fronte a loro a fare delle domande e a scoprire i loro pensieri. Gli abbiamo appena comunicato che AIESEC Ethiopia ha venduto duecento delle loro sciarpe durante il Congresso Internazionale in Kenya. I loro visi per un attimo si illuminano. I ringraziamenti sembrano non finire mai. Chiedo alla più anziana del gruppo qual è la sua speranza per il futuro: continuare a vivere in pace qui, lavorando. Sembra assurdo che questa frase l’abbia detta una donna che guadagna circa dieci euro al mese. È lo stipendio medio, anche per quelle che hanno dei figli. Bambini il cui futuro non ha colore, alla cui istruzione non è mai stata aperta la porta. Madri che lavorano ogni giorno duramente, le cui mani sono spesse e rovinate, i cui lineamenti sono forti come la vita che stanno vivendo. Donne che non si arrendono.
Ed è proprio la loro forza e il loro lavoro che aprirà quella porta. AIESEC Ethiopia ha iniziato a vendere le loro sciarpe e parte dei ricavi andrà a costituire un fondo per volontari internazionali che arriveranno durante tutto l’anno per dare ai loro figli un’istruzione di base. Chissà se si renderanno conto che è il loro sudore il merito di tutto questo.
Ho chiesto loro cosa vogliono che sentano le persone che adesso nel mondo iniziano ad indossare le loro sciarpe. Mi hanno risposto che sperano che queste persone pensino anche a loro e al loro duro lavoro.
Io la sto indossando e sento il calore del loro coraggio che mi scalda il collo.