16 Ottobre 2011
Racconto scritto per il contest "On The Move" di Pubblicità Progresso
Era il mio ultimo giorno in Etiopia.
L’8 Settembre dell’estate che sta svanendo in questi giorni, nonostante sia Ottobre inoltrato. Avevo deciso di trascorrere il mio ultimo giorno senza fare nulla di speciale, vivendomelo come avevo vissuto tutti gli altri. Ero vicino Mexico, ad aspettare Hirut ed Elisa, di fronte al bar Lombardia dove avremmo preso un thè caldo alla cannella o un caffè acquoso di cui gli etiopi vanno così fieri. Mentre le aspettavo ricordo di essermi accesa una sigaretta, ero ormai abituata agli sguardi increduli di alcuni passanti alla vista di una ragazza che fuma per strada. Così come ormai ero abituata alle frasi a mezza bocca che qualcuno pronunciava passandomi accanto o ai numerosi venditori ambulanti che cercavano di appiopparmi qualcosa di inutile. Mi ero abituata anche ai mendicanti per strada e ai bambini che pulivano le scarpe ad ogni angolo.
Apri bene gli occhi e osserva più che puoi in questi giorni, perché dopo alcune settimane diventerà tutto normale - mi aveva detto Elena il giorno dopo il mio arrivo ad Addis Abeba. Ed era vero, quasi tutto era diventato normale e quotidiano. Anche se alcuni aspetti di quella città continuavano a stupirmi ogni giorno. La mia sigaretta era finita e nessuno ancora era arrivato, probabilmente erano entrambe su un taxi che faceva lo slalom nel traffico.
Fu in quel momento che sentii un fischiettio lontano provenire dalla parte destra del marciapiede. Mi girai e la vidi arrivare, dondolante nei suoi chili di troppo ricoperti da un pareo e altri stracci sporchi. La vedevo avanzare con passo incerto. Nella mano destra teneva un ramoscello verde che sventolava davanti a sé. A pochi passi da me c’era un albero, ci si appoggiò con la schiena e iniziò a fissarmi dalla testa ai piedi, ripetendo quel movimento almeno quattro volte, senza smettere di fischiettare. Continuava a fissarmi e io iniziavo a sentirmi in soggezione, voltavo lo sguardo nella direzione opposta sperando che se ne andasse. Si staccò dal tronco e mi venne ancora più vicina, girò due volte intorno a me roteandomi davanti il suo prezioso ramoscello, quasi come se fosse una bacchetta magica. Non sapevo cosa pensare, se era una maledizione o una benedizione quella che mi stava mandando o se semplicemente era la sua follia a condizionare il suo atteggiamento. Mi squadrò per l’ultima volta e tornò sui suoi passi. Perplessa la vidi mentre si allontanava. Dondolante nei suoi chili di troppo, lanciò per terra la sua bacchetta e ne strappò una nuova da una siepe accanto a lei. Il suo fischiettio lontano risuonò nell’aria per i secondi successivi, fino a quando fui distratta dai passi veloci e ritardatari di Elisa che arrivava dalla parte opposta.
Ho passato un mese e mezzo ad Addis Abeba e di ogni persona che incontravo cercavo di scoprire la storia che nascondeva. Ho conosciuto persone dai sogni più grandi del possibile, persone che fanno della speranza la loro più grande preghiera, persone che disegnano il futuro degli altri su un foglio bianco e altre ancora che iniziano a colorarlo con colori pastello. Ho conosciuto i direttori di una scuola “informale”, partner nel lavoro, nella vita e nei sogni. Lo scorso anno nella loro scuola hanno studiato cinquecento bambini, dai cinque anni in su, sessanta dei quali vedono quelle mura come un regalo della vita. Appartengono a delle famiglie che non possono permettersi di pagare la scuola pubblica, famiglie il cui investimento primario non può essere l’istruzione dei figli ma un pasto sicuro a fine giornata, spesso figli di donne senza un marito e troppi figli. La scuola, grazie a finanziamenti esteri e alle tasse che pagano gli altri iscritti, è riuscita a regalare loro la prima pietra per un futuro migliore, l’opportunità di alzarsi ogni mattina e andare a studiare. Ho conosciuto un uomo di più di cinquant’anni che ha deciso di fondare un istituto per disabili. Un ciclo più che un istituto qualunque. I bambini e i ragazzi più giovani studiano attraverso strumenti creati su misura dell’handicap che li accompagna. Un bambino cieco, ad esempio, può imparare l’alfabeto amarico e inglese sfiorando con le dita i singoli caratteri creati in bassorilievo con la sabbia su dei tasselli di compensato. Tutti i materiali e gli strumenti utilizzati per l’apprendimento sono prodotti dai ragazzi stessi alla fine del loro ciclo di studi. Alcuni hanno anche la possibilità di lavorare alla creazione di prodotti che poi verranno immessi nel mercato, come sandali o vestiti da donna. Altri ancora ricevono training di economia base, per poter gestire autonomamente la loro attività. Da studenti a impiegati a manager embrionali. Tutto nella stessa struttura, chiusi tra quattro mura di una città che altrimenti gli avrebbe dato come unica possibilità quella di chiedere quattro monete all’angolo della strada. Ho conosciuto donne la cui speranza più grande è di poter continuare a lavorare in pace e in armonia, ringraziando chi le ha aiutate per aver abbandonato il vecchio lavoro di “trasportatrici di legname”. Si svegliano presto al mattino e si siedono per ore di fronte a un telaio che darà alla vita delle sciarpe colorate e cariche di forza. Ho conosciuto giovani volontari che stanno portando queste sciarpe fuori dalla nazione, sciarpe che oggi vengono indossate da altre donne in ogni angolo del mondo. Giovani che hanno deciso di non volere più restare a guardare il mondo cambiare, ma di alzarsi e cambiarlo loro, come loro vogliono e se lo immaginano.
Ho passato un mese e mezzo ad Addis Abeba e il mondo di certo non l’ho cambiato, ma una cosa sono sicura di averla fatta bene : raccogliere storie e portarle qui, a persone che altrimenti queste storie non l’avrebbero mai ascoltate.
Forse è questo il potere che ho ricevuto quel giorno, vicino Mexico davanti al bar Lombardia, da quella donna dondolante nei suoi chili di troppo e con una bacchetta in mano.